Dalla lettura dei diversi tomi “Delle Antichità Picene”, dell’Abate Giuseppe Colucci, pubblicati dal 1786 al 1796, emerge una realtà storica, economica, territoriale, culturale, che fa riferimento ad un ampio contesto in cui è calato il centro di Septempeda: il Piceno. L’individuazione del Piceno quale realtà territoriale presente e viva, oltre a definire i naturali confini geografici tracciati dalla storia, in relazione alle origini picene delle Marche, predispone alla contemplazione di un vasto ambito culturale che si estende da Ascoli e Fermo a Fabriano, Ancona e Pesaro, e comprende significative realtà, individuate nelle comunità di Monte Milone (Pollenza), Tolentino, Urbisaglia, Treia, Matelica, Camerino, San Severino. 

Siamo diventati spettatori di un continuo passaggio della “storia” da una città all’altra, attraverso un racconto che si sviluppa lungo le antiche strade consolari, fiancheggiate da un ben individualizzato paesaggio agrario che non definisce le città o la campagna in quanto semplici spazi ma “luoghi” soggetti ad un giudizio di valore estetico, dove il tempo e la memoria raffigurano un presente pregno di tutto il passato e già provvido del prossimo futuro. 

Oggi, possiamo provare a ripercorrere le "strade del Piceno", un viaggio alla riscoperta di memorie storiche ed archeologiche che si accompagna a valori di vita autentici e ancora presenti: il piacere della tradizione della “buona tavola”, il recupero del benessere psico-fisico in “villa”, luoghi di svago immersi nel verde di paesaggi incantati, la magia dell’emozione della sera, affidata a canto, musica, poesia e teatro. 

Villa Luzi è posta su un'altura nei pressi di San Severino Marche e rappresenta un esempio illuminante per quanto riguarda il rapporto tra architettura e paesaggio agrario.

La villa, per quanto all’esterno possa apparire una costruzione semplice e per di più anonima, mostra uno stretto rapporto di interrelazione tra il manufatto, il parco verde e la natura circostante. Il carattere femminile dell’opera viene rivelato dalla semplice prevalenza di linee orizzontali e dal contesto quasi nascosto, segreto, racchiuso dalla cinta di pini marittimi secolari, a dominare uno splendido paesaggio urbano con il borgo in primo piano, in alto il castello con le sue torri e le montagne tutto in giro. Le indovinate proporzioni, la sicurezza con la quale sono state scelte le altezze dei piani e sono state distribuite le singole aperture lasciano supporre la mano di una forte personalità. Considerando il forte legame di stima ed amicizia tra il marchese Niccola Luzi e l’architetto Ireneo Aleandri, non si può escludere completamente l’attribuzione dell’opera allo stesso, con datazione successiva al 1843, anno della morte della marchesa Marianna Tinti Luzi. All’interno, a partire da uno splendido ingresso in “stile pompeiano” e precisamente nel così detto “terzo stile”, scandito da colonne doriche, finte paraste e specchiature dipinte e rievocato magistralmente da un ignoto pittore (molto probabilmente Filippo Bigioli da San Severino) si sviluppano una serie di ambienti tra cui una sala decorata da affreschi a “trompe-l’oeil”. Nella decorazione dei soffitti, invece, si passa al romantico dei medaglioni di paesaggio e addirittura a bellissime espressioni di più avanzato e raffinato gusto liberty.” La ricostruzione ottocentesca di un atrio in stile pompeiano conferisce allo spazio un particolare tono celebrativo che il marchese Niccola Luzi ha forse voluto dedicare alla memoria dell’amata moglie Marianna, dei viaggi condotti insieme a Lei nei luoghi delle antichità romane e delle emozioni vissute tra le rovine di Ercolano e Pompei. La scena principale, raffigurata nel tondo del soffitto, celebra alcune figure femminili con fanciulli, a piedi nudi, che suonano, danzano e cantano: sullo sfondo si intravede un lussureggiante giardino con alberi ed arbusti di diverse varietà. Il quadro ci offre il tema legato al fiorire della primavera nel giardino delle Ninfe, realtà e simbolo di giovinezza e amore. Le Ninfe, potenze della generazione, hanno origine pre-ellenica e rappresentano la fecondità della natura; il loro ciclo vitale è legato alle piante, sono esseri che vivono a lungo, sempre in mezzo alla vegetazione, e danzano con gli dei innalzando canti. Le Ninfe sono presenti in una simbologia che unisce l’amore, il fiorire delle piante, i giardini, la primavera, la vitalità in una visione gioiosa della vita. 
Tutt’intorno, nei quadri disposti lungo le pareti laterali, altre figure femminili, con vesti colorate che diventano vivaci festoni, partecipano al momento di festa con suoni, canti, danze e offerta di frutti. In altri riquadri più piccoli appaiono alcune divinità mitologiche.

La stanza dipinta apre lo spazio chiuso verso un mitico giardino, fatto di prospettive e paesaggi incantati, simulando il congiungimento della chiusa realtà dello spazio interno con una più bella realtà ideale, affinchè quella partecipi a questa e la nobiliti, in un rapporto che in qualche modo colloca l’osservatore nello spazio (interno e chiuso) rappresentato come paesaggio (esterno ed aperto) che diventa luogo per la forma individua ad esso data dalla natura (montagne, corsi d’acqua, vegetazione), dalla storia (gli abitati con castelli e mura e ponti e campanili); dalla vita di cui sono immagine le figure di uomini ed animali domestici: rappresentazione metaspaziale dell’infinito al pari di altre opere pittoriche, musicali o architettoniche . Alla pittura, alla poesia e alla musica ci si rivolge per celebrare il ricordo dell’amata attraverso figure mitologiche, luoghi immaginari, forse suggeriti da Vitruvio, nel capitolo quinto del libro settimo, per le pareti degli ambulacri: “porti e promontorii, e litorali e fiumi e fonti e stretti di mare; e templi e boschi e monti, e pecore e pastori…” o fors’anche presenti nella memoria di precedenti viaggi. Anche la musica può essere maestra nel descriverci il passaggio tra uno spazio interno, chiuso e uno spazio esterno, aperto: per esempio il Don Giovanni o il Flauto magico di W. A. Mozart. Fuori, i pini secolari e la folta vegetazione, posta tutt’intorno allo storico edificio, ripropongono lo stesso rapporto interno-esterno con la delimitazione dello spazio racchiuso del giardino reale, dedicato alla contemplazione della natura e al godimento estetico offerto dai frutti e dai fiori presenti, attraverso cui si aprono incantevoli scorci paesaggistici verso il Borgo, in basso, e il Castello in alto con le montagne tutto in giro. I vicini campi, una volta coltivati a frutteto con pesche, susine, albicocche o seminati con foraggi e erba medica, riconducono lo spazio del giardino all’interno di quel territorio agricolo che si identifica nel carattere di distensione e pacatezza del paesaggio rurale, classico: rappresentatività metaspaziale del paesaggio come luogo, immagine finita dell’infinito. A nord, dietro le querce secolari, un altro paesaggio, architettonico ed aulico, si apre verso la rotonda di Villa Collio, il cui ritmo scandito dalle nobili serliane e dalla metrica neoclassica, rimanda a quel mondo rinascimentale dove la geometria perfetta delle linee architettoniche si contrappone al libero sviluppo della natura circostante. Gli alberi da frutto e il piccolo orto che si affacciano sul colle e sul retro delle piccole rimesse agricole, completano il quadro di quel luogo reale-ideale dove, con sapienza, la mano dell’uomo conserva il terreno, naturalmente ordinato, non consentendo che la natura possa prevalere e cancellare quel mondo, giunto fino a noi, fatto di cultura, di memoria, di oggetti antichi di uso comune, di precise relazioni spaziali - temporali e di racconti che ci guidano tra natura, storia, religione e miti. Le architetture neoclassiche, le stanze dipinte, il canto e la musica, gli alberi secolari, l’arte di coltivare il giardino, il paesaggio agrario che giunge dal tempo arcadico, al pari di tutti quei valori che innalzavano la vita al di sopra della sua finitezza, svolgono il ruolo di mediatori culturali, mentori del nostro passato, promesse di un possibile futuro, testimoni di antiche verità, traghettatori di quelle conoscenze che, giunte sino a noi, concorrono ad individualizzare lo spazio ed a qualificarlo come luogo, metaspazio: immagine spaziale in cui il tempo rappresenta se stesso e si infinitizza.

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